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Il reportage sugli incontri del primo giorno del Vintage Festival 2013: cos’hanno detto i nostri ospiti? Ecco i riassunti e i punti salienti.

Oliviero Toscani

Questa quarta edizione del Vintage Festival parte alla grande, con un peso massimo come Oliviero Toscani, fotografo di fama mondiale, artista controverso e creatore di campagne pubblicitarie memorabili. Al suo fianco Giorgio Camuffo, docente, direttore della laurea specialistica in design e comunicazione, editore e agitatore culturale dietro le quinte di numerose iniziative a Venezia e in terra ferma.

Un incontro esclusivo nel quale riscoprire il coraggio di immaginare nuovi universi comunicativi, riportando la creatività al centro del proprio lavoro, con energia, dedizione, semplicità ed entusiasmo, diversificando le proprie fatiche dalla mediocrità e dalla “fuffa contemporanea”.

Uno straripante Toscani, sul tema, non si è risparmiato in aneddoti curiosi, sparate provocatorie e giudizi tranchant.

«La scuola per me è stata un incubo, il liceo un vero calvario! Infatti non ci andavo spesso, marinavo la scuola e andavo al cinema. Infatti mi sono fatto una cultura di film francesi della nouvelle vague e pellicole americane del cinema classico. Poi c’è stata la scuola d’arte e per me è cambiato tutto»

Secondo Oliviero è difficile nella vita trovare dei buoni maestri. «I buoni maestri sono in realtà i cattivi maestri, poiché è nell’insegnare la “non sicurezza”, il dubbio, che si genera creatività. Il buon maestro non deve insegnare cose finite che già esistono. Questo non significa fare arte»

Al giorno d’oggi la ricerca creativa passa spesso attraverso la ricerca e lo stream digitale ma «nei monitor ti danno il vintage, cioè il già fatto. L’immaginazione non può basarsi sulla sicurezza» mentre purtroppo, al giorno d’oggi, i cosiddetti “artisti” sono coloro che «hanno riempito i cestini della spazzatura».

Da questo punto di vista Toscani ha le idee molto chiare sul concetto di nostalgia, una parola che detesta: «Il vintage va eliminato! Non possono vedere delle ragazzine vestite come i miei zii. I miei zii, revival umani, sono tornati in vita dagli anni ’60»

Senza contare che: «La parola Vintage mi mette in crisi: cosa vuol dire? Infatti sono venuto qui apposta. Per capirne di più. Io invece penso che la nostalgia impedisce il futuro. Mentre l’arte ha bisogno di immaginazione, di sogno, di energia. L’unica cosa che mi piace del vintage è che questa parola mi ricorda il vino»

Di avviso parzialmente diverso Giorgio Camuffo, il quale vede nel passato una possibilità di ricerca creativa ma soprattutto di riscoperta di valori e contenuti rilevanti ed emozionali.

«Al giorno d’oggi se ho bisogno di trovare dei contenuti, dove li trovo? Nel contemporaneo è difficile scovarli, perciò viene da trovarli nel passato, basti pensare alla fotografia e alla grafica»

Inoltre nel lavoro artistico sarebbe opportuno ritrovare la propria “gaiezza” un termine che al giorno d’oggi suona un po’ strano, quasi come un neologismo.

Ma la gaiezza non sta solo nel sorriso, nella contentezza fine a se stessa, ma “il divertimento”, dice Giorgio Camuffo «consiste nel fare le cose con consapevolezza». Insomma la gaiezza trova realizzazione nel contenuto, nella creatività che si concretizza in qualcosa di straordinario ed esclusivo.

Giusi Ferrè

Il secondo appuntamento all’insegna della moda vede protagonista la grande Giusi Ferrè, giornalista di costume, firma storica di numerose testate, nonché conduttrice tv che con il suo seguitissimo apputamento Bucce di banana combatte la propria battaglia contro il cattivo gusto.

Un pozzo di cultura dell’immagine che ha dispensato numerose battute d’antologia sul tema della moda e della cura dell’immagine.

«Ormai tutti mi chiedono consigli su cosa mettersi; ma i migliori sono i miei parenti che mi chiamano dai negozi e mi descrivono il capo»

«Il mio primo incarico era una rubrica su Amica si chiamava “cambiati usciamo”  la seconda “buccia di banana”  un titolo azzeccato, se pensiamo che questa ti consente la redenzione: dopo un po’ la buccia impari a schivarla»

«Non ci sono arcani segreti per vestirsi con gusto né non essere sempre semplici ma significative.”

«Parte del mondo rock contemporaneo si veste così male che mi assicurerà il lavoro per i prossimi cento anni

«Odio il detto: ” se vesti bene un prete sembrerà un cardinale” Amo il detto: “l’abito non fa il monaco” Niente di più falso! lo fa eccome!»

«Chi pensa che la moda sia solo una questione “di vestiti” non ha capito nulla. La si può studiare da talmente tanti punti di vista:  il colore della città in cui vivi rispecchia il colore del tuo cappotto o lo contrasta? Il senso mimetico della moda e il senso empatico della moda. Il trend è tale perché accomuna e amalgama una comunità. La sociologia della moda»

«Nella moda c’è tutto. perché il mercato globale comprende tutto, ma prova a vendere il beige in Cina, è impossibile»

«Yamamoto è stato il più grande stilista di tutti i tempi, e della moda europea non capiva i tacchi, non davano alla donna un aria ne’ elegante ne’ morbido; ma c’è chi ne ha fratto una questione di vita come Daniela Santanchè. E’ una questione di punti di vista»

«Photoshop è l’ultima fase della pazzia della perfezione, Andy Macdowell ha ancora circa trent’anni»

«L’ultima moda è un inganno; mi cito perché ormai sono noiosa»

«Non capisco il pinocchietto: che differenza ti fanno 10 cm? (…) Senza calze? Con le calze? il color carne lo trovo inutile, le calze sono un accessorio, se sono color carne a questo punto non metterle, e se le metti gioca coi colori. Kate Middelton lo mette color carne, ma presumo sia una questione di bon ton reale. Credo che la linea nera sulle calze delle donne sia un intramontabile segno di sensualità. E come diceva Jannacci: “T’ho comprato le calze di seta con la riga nera/tu camminavi al mio fianco come una pantera.”»

La giornalista di moda Giusi Ferrè vede nel vintage l’indice di una voglia di recuperare qualcosa di iconico del passato in un tempo in cui ogni cosa prende e perde valore in un attimo. Non si tratta però di abbigliarsi da capo a piè di articoli del passato, ma di essere piuttosto in grado di sfalsarsi facendo sapiente uso di accessori e abiti, per un costante riaggiornamento di sé.

Proprio sulla capacità di ognuno di reinventare il proprio look si gioca lo scarto tra giornalista di moda e semplice fashion blogger, tra celebrities quali Cate Blanchett o Christine Scott Thomas e una Lindsay Lohan.

Per non parlare poi della Merkel, alla quale se potesse far esprimere i soliti tre desideri del genio della lampada non farebbe che farle ripetere: “rifatemi il look, il look, il look!”. Cosa farebbe scrivere questa sagace giornalista e conduttrice sulla sua tomba? Che nella vita s’è tanto divertita. Chapeau!

Marco Alemanno

Marco Alemanno al Festival delle Generazioni

Marco Alemanno ha ricordato alcuni episodi della sua vita con Lucio Dalla: dal casuale incontro alla fermata di un autobus di Bologna alle produzioni fatte assieme. La voglia di dare forma al dolore per la perdita dell’amico lo ha spinto a scrivere il libro titolato Dalla luce alla notte.

Tra i vari aneddoti quello del basco di velluto di Lucio, improvvisato a causa di un’incipiente calvizia, divenuto poi parte integrante del look del cantautore. Oppure il regalo di un clarinetto da parte del vicino di casa, indispettito dal suono della fisarmonica che un piccolo Lucio non si stancava di suonare: proprio quello strumento regalatogli per caso avrebbe reso proficuo l’incontro con Gino Paoli e le prime collaborazioni. Tutto il resto è storia della musica italiana.

Ciò che è emerso del grande uomo che fu Dalla è l’allegria: racconta Alemanno che più della morte Lucio avesse paura della noia.

Qualche aneddoto? Durante l’infanzia, la madre modista di Lucio Dalla, lo vestiva di strass e lo incoraggiava a coltivare le sue doti di uomo di spettacolo. Dalla diceva «se io sono matto mia madre era più matta di me».

Lucio Dalla e la morte: «Ho più paura della noia che della morte (…) La morte è il Secondo tempo». Marco  Alemanno dice che, da buon “meridionale”, Lucio la esorcizzava sempre e che era talmente attaccato alla vita da ritenersi eterno.

Lucio era un personaggio poliedrico che si interessava di poesia (che definiva “patologia del linguaggio”), di cinema e di teatro. Aveva in casa una “Stanza dello scemo” che usava per proiezione di film (gli piacevano quelli demenziali e con tanti effetti speciali, supereroi, esplosioni, inseguimenti, da Bruce Willis a Matrix); la stanza a Natale ospitava migliaia di giostrine, carillon ecc. Era molto amico di Fellini che dormiva ai suoi concerti e gli diceva che era stato bravo a cantare perché l’aveva fatto dormire così bene.

Per quanto riguarda il processo creativo e cantautoriale? Lucio diceva che bisogna sempre avere le orecchie tese per captare qualcosa che si possa trasformare in un soggetto o in una canzone.

Matteo Bordone

Le voci dei protagonisti, i successi, i devastanti disastri, le rivoluzioni tecnologiche del decennio più controverso del XX secolo, che hanno fatto di noi quello che siamo oggi. Un viaggio nel nostro passato, nell’immaginario più variopinto “revivalizzato” della nostra epoca con Matteo Bordone, blogger, giornalista e conduttore radiofonico.

Matteo Bordone si presenta con una camicetta bianca semplice, dei pantaloni grigi e delle new balance nere.

Semplice e diretto un po’ come il suo discorso.

Attacca subito a parlare e con disinvoltura, una disinvoltura che sicuramente affascina, soprattutto il pubblico femminile che lo guarda ammirato.

«È passato abbastanza tempo per parlare degli anni ottanta un po’ come i sumeri» esordisce così Matteo, gli anni ’80 infatti sono rimasti un decennio su cui le opinioni sono molto nette poi è esplosa la «retromania».

«Un po’ di tempo fa ero a Tokyo e mi hanno portato a un locale a tema cronologico ossia organizzato attorno ad un’epoca, entro nel locale e c’erano fotografie di tram, gente vestita nemmeno dei nonni miei, poi c’erano Gozzilla e Gamera nei posters, e un piatto che era la naporitan (un piatto al pomodoro arrivato all’incirca negli anni 80). Il problema è che in Giappone non ci sono decadi ma si parte a contare dall’epoca di un imperatore.

L’epoca Shōwa va dagli anni ’20 agli anni ’80 ossia la pasta al pomodoro, Gozzilla, Mario Boss ecc…

Uno dei topic della chiacchierata di Matteo è l’ingenuità dei media negli anni 80, la povertà in africa come altri problemi vengono trattati con un fare nave che forse proprio per questo ottiene una grande eco: “e non ci sarà la neve in africa questo natale”.

Del resto colore che crescono negli anni 80 a differenza dei giovani degli anni 70 fanno parte di una società individualista, che con sguardo basso balla la dark wave e si fa poche domande.

«Quando è arrivato l’individualismo il chissenefrega e piastriamoci i capelli»

Anche la musica è uno strumento espressivo ingenuo ma allo stesso tempo di rottura, come ad esempio il video di Battiato Centro di gravità permanente girato con una tecnologia al limite del trash e che Bordone soprannomina: “il ballo del quadro svedese”.

Oggi invece il passaggio dal “lombardo veneto alla modernità” ossia da Ramazzotti a Tiziano Ferro non ha lo stesso impatto.

Gli anni 80 dunque sono un po’ come “l’ottovolante”, c’è quel momento in cui dopo la prima picchiata si aspetta la seconda picchiata, quel momento in cui risalendo per una secondo sei in uno stato di benessere imbecille senza peso tra una botta e l’altra, un po’ una brezza stupida un po’ leggera.

In un certo senso le cose sono cambiate con il videoregistratore e il far riaccadere: non siamo più legati al tempo, non guardiamo più a che ora c’è un programma, dopo la metà degli anni 80 si perde la percezione del tempo, del qui e ora.