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RESPECT THE OLD SCHOOL

Se avremo la possibilità di invecchiare vogliamo arrivarci con un certo criterio. In primis ci affascina l’idea di potersi fingere totalmente sconclusionate sapendo benissimo dove si vuole arrivare. Saremo più chiare, non si stenta a credere che dopo una certa età si manifestino dei problemi di organizzazione mentale, ma ci piace pensare che faccia tutto parte di un calcolo, una gran presa in giro architettata da chi ha superato una certa età per farci svegliare un po’.

Le madri dello stile contemporaneo

Se avremo la possibilità di invecchiare vogliamo arrivarci con un certo criterio. In primis ci affascina l’idea di potersi fingere totalmente sconclusionate sapendo benissimo dove si vuole arrivare. Saremo più chiare, non si stenta a credere che dopo una certa età si manifestino dei problemi di organizzazione mentale, ma ci piace pensare che faccia tutto parte di un calcolo, una gran presa in giro architettata da chi ha superato una certa età per farci svegliare un po’.

Non tutti hanno avuto la fortuna di avere una figura chiave come una nonna durante la crescita, ancora meno quelli che han l’estrema pacchia di averne ancora una attiva, pensante e con i contro-bilanceri tarati. Vogliamo rendere omaggio alle vere signore, quelle tuttora presenti o non più, quelle a cui è un dovere sociale ispirarsi senza se e senza ma.

Iniziamo senza mezze misure da una che sembra aver perso ogni sorta di contatto con la realtà e invece ne sa più di tutti: Michele Lamy. Nasce intorno agli anni ’40 e gestisce gloriosamente un noto locale di cabaret a Los Angeles per diversi anni. Dopodiché, con le dita tatuate, i denti d’oro e i capelli lunghi corvini, si trasferisce a Parigi con il marito di una generazione e mezza più giovane Rick Owens (stilista). Quest’ultimo da sempre la considera sua unica musa ispiratrice. In effetti, guardando le sue creazioni, i riferimenti allo stile della consorte sono ben evidenti. La Signora non ha solo occhi per Rick però, ha seguito professionalmente lo stilista visionario Gareth Pugh nella sua ascesa nel mondo della moda. Musa, imprenditrice in anni improbabili, domatrice di designer capelloni, donna irripetibile.

Ma passiamo alla scienza. Se ora stai leggendo questo post ascoltando l’ultimo podcast scaricato, se il caro Mark Zuckerberg ha potuto concepire Facebook e se Steve Jobs ha giocato il Risiko della conquista del monopolio sulla tecnologia di comunicazione mobile beh, il respect va tutto alla dottoressa Grace Murray Hopper. Classe 1906, consegue il dottorato in fisica a Yale; per Grace, però stare in una delle accademie più importanti del mondo ed essere una delle poche americane a poter evitare di sognare solo una frullatore elettrico per Natale non era sufficiente. Dopo l’attacco di Pearl Harbour, Mrs Hopper entra nella Marina e si mette subito a lavorare su Mark I, il precursore dei computer elettronici. È colei che inventa e diffonde parola bug per intendere un mal funzionamento di un programma.

Come Murray Hopper, tante donne si sono ritagliate uno spazio in tempi non sospetti in ambienti a egemonia maschile. Una di queste è, Maya Deren, la precorritrice del cinema sperimentale indipendente americano. Nasce a Kiev nel 1917 e all’età di 14 anni si trasferisce a New York dove inizia il suo percorso poliedrico che la porta a creare con la pellicola. Dirige, scrive, fa propaganda diretta e organizza le prime proiezioni pubbliche di film sperimentali alla Provincetown Playhouse di New York. È una delle prime registe che ha nobilitato la figura del cineasta indipendente allontanandosi e criticando i meccanismi che ruotano attorno al cinema di massa.

Fra i suoi lavori più famosi segnaliamo Meshes of the Afternoon (1943), At Land (1944), A Study in Choreography for the Camera (1945), Ritual in Transfigured Time (1946) e Meditation on Violence (1948). Tutta la produzione viene influenzata dalle convinzioni femministe, dagli interessi per il surrealismo francese e per le avanguardie. E la sua influenza a distanza di diversi decenni continua a toccare artisti e registi differenti… NB: cari amanti (e non) di David Lynch, guardatevi o riguardatevi qualche suo film come Inland Empire (2006) o Lost Highway (1997)!

Dal cinema indipendente al piccolo schermo nei suoi anni d’oro, la televisione ha creato archetipi inaspettati che influenzano l’occhio della memoria. Provate ad immaginarvi ora una vecchietta arzilla. Se il primo pensiero sarà quello della vostra nonna o della portinaia bonacciona, la terza scelta molto probabilmente ricadrà su una protagonista di sceneggiati televisivi.

Che sia Zia Yetta, de La Tata o Sophia di Golden Girls poco importa, questi personaggi si sono installati nell’immaginario condiviso di una generazione che ha fatto delle serie tv un vero proprio protagonista di quel concetto molto filosofico e mittel europeo che è lo  spirito del tempo Golden Girls, che in Italia viene tradotto Cuori Senza Età, è oggetto di culto tra gli appassionati ed è stato capace di stigmatizzare brillantemente, senza scadere in facili  caricature, la donna attempata.

Andato in onda dal 1985 al 1992, racconta la convivenza di 4 signore arzille dotate di molto sarcasmo. Dorothy, la saggia, Sophia la più old, arzilla e amorevolemente cinica, Rose, la naif e Blanche, la frivola collezionatrice di ex mariti. Ma è Yetta Rosemberg, meglio conosciuta come Zia Yetta che rappresenta la queen dell’immaginario della vecchietta che “spacca”.

Inconsapevolmente sarcastica, entra ed esce dalla scena con i suoi improbabili e scintillanti outfit, le sue superbe e cotonate acconciature, riuscendo sempre a catalizzare l’attenzione dello spettatore.

Testo di Cristina Zaga e Zelda Andreoli.
Articolo a cura di Shedonism